Secondo l’ultimo rapporto Ispra sui rifiuti urbani, in Italia nel 2020 sono state raccolte 143,3 tonnellate di capi di abbigliamenti o tessuti dismessi da privati.

Tipicamente il 60% è stato destinato al riciclo (se monofibra) e al riuso (secondamano o upcycling) o un 3% allo smaltimento, mentre 40% viene spedito all’ estero come materiale di basso valore in quanto di composizione mista attualmente non gestibile.

Con riferimento al rapporto tra riuso e riciclo, storicamente si sono trovati nelle raccolte dei cassonetti per l’abbigliamento più capi per il secondamano. Putroppo da 10 anni con l’aumento del fastfashion la quota di capi validi da riutilizzare sta calando fortemente e aumentano quelli da riciclare, che con le nuove tecnologie sarà possibile anche per le fibre miste.

In alcuni comuni la raccolta differenziata del tessile avviene già, ma ci sono diversi punti da migliorare, come rendere più accessibili e aumentare il numero delle campane della raccolta, per evitare che rifiuti – che potrebbero essere recuperati – finiscano nell’indifferenziato.

Uno scenario che ha spinto così il nostro Paese ad anticipare il recepimento della direttiva Ue: dal 1° gennaio 2022 gli enti locali dovranno garantire in maniera capillare il riciclo dei rifiuti tessili per risolvere in ottica circolare un problema che unisce la filiera della moda e della sostenibilità.

Con il decreto legislativo 116/2020, infatti, si incentiva la selezione, il riutilizzo e il riciclaggio dei tessili, anche attraverso l’innovazione, incoraggiando applicazioni industriali e misure di regolamentazione.

La strategia prevede, tra le altre novità, anche l’introduzione dell’estensione della responsabilità del produttore (Epr) nel comparto industriale tessile-moda, visto come uno dei migliori strumenti per raggiungere gli obiettivi previsti a livello comunitario per rendere concreto il principio del “chi inquina paga”.

Un percorso che se portato avanti garantirebbe l’autenticità del percorso delle aziende della filiera moda verso la sostenibilità.

Sono sempre più i brand, infatti, che riprogettano e riconfezionano capi nuovi, a partire dai propri scarti di produzione, oppure recuperando la materia prima facendola tornare da tessuto a filo.

Ma qual è lo stato dell’arte attualmente e quali sono le ulteriori azioni che possiamo mettere in campo per riconvertire il sistema e avviare una vera economia circolare nel tessile-moda?

L’ho chiesto ad Alessandra Guffanti, founder e direttore commerciale di Guffanti Concept, nonché Presidente Nazionale Gruppo Giovani di Sistema Moda Italia, che ha fotografato con maestria il contesto storico del settore, per parlare dei trend odierni e degli scenari futuri.

Vorrei inquadrare il tema della sostenibilità del tessile da tre angolature. La prima è la storia, la seconda riguarda le prospettive e il terzo riguarda la fotografica odierna.

Iniziamo dalla storia.

L’episodio internazionale scatenante che ha segnato il big bang all’interno della coscienza degli imprenditori e dei consumatori è stata purtroppo la strage di Dacca, capitale del Bangladesh, dove crollò il Rana Plaza, un palazzo di nove piani in cui c’erano moltissimi laboratori di manifattura tessile, fornitrici di molte aziende occidentali: morirono 1.129 persone.

Tale episodio ha coinvolto indirettamente molte aziende anche italiane, che lì avevano la produzione tessile attraverso subfornitori, ponendo il tema della responsabilità sociale; concetto che, ancora prima della responsabilità ambientale, ha portato ad una riflessione sull’ identità del fashion system esautorato dal fast fashion.

In questo contesto iniziano a nascere delle iniziative di taglio ambientale sia a monte della filiera da parte delle aziende di filatura, tessitura, processi di nobilitazione, confezione e brand e sia da parte dei consumatori stessi.

In Italia attraverso Sistema Moda Italia, l’associazione di Confindustria del tessile, viene costituita una commissione sostenibilità per mettere a sistema le best practise che hanno uno standard superiore alla normativa attuale in termini chimico-ambientali. Negli anni successivi il consumatore ha potuto percepire gli effort messi in campo attraverso 2 chiavi di lettura: l’adozione di standard di sostenibilità rappresentati da certificati come GOTS per l’organico o GRS per il riciclato oppure attraverso autodichiarazioni sulla tracciabilità della filiera. 

Il convergere di questo momento storico suffragato da interesse e iniziative sostenibili sia da parte dei consumatori, che delle industrie, ci porta ad uno scenario odierno, post-covid, in cui abbiamo diverse opportunità.

Da una parte abbiamo contesto politico in cui la Comunità UE che nel 2018 ha promosso la creazione di una categoria rifiuti urbani tessili e la richiesta che entro il 2025 tutti i paesi si dotino di un sistema di gestione di questi.

Dall’altra, abbiamo un’attenzione sociale verso tecnologie per l’ambiente. Molti brand investono oltre che nella ricerca estetica, nelle combinazioni di valori sul prodotto e la promozione della loro vision sul tema sostenibilità. Finalmente molte collezioni raccontano esplicitamente i materiali o i produttori con cui collaborano per dare visibilità alla loro scelte sostenibili. Il tabù di non svelare i propri fornitori per molti sta cadendo per invece mostrare le scelte consapevoli che sono state fatte.  L’ ingredient branding diventa una strategia di marketing della moda e soprattutto del lusso.

Oggi possiamo classificare le collezioni anche secondo il loro impatto ambientale, vision sulla sostenibilità e progetti di innovazione.

Motivo per cui molte aziende del tessile-moda stanno diventando bcorp.

Terzo elemento di questa forte tendenza verso la sostenibilità è che siamo in un momento geopolitico che ci impone di stare molto attenti ai consumi (energetici e di materie prime), per cui è stata naturale questa inversione di tendenza.

Tutto ciò confluisce nella sostenibilità non solo come trend, ma come opportunità da cogliere.

Molti progetti pensati negli ultimi 5 anni dagli imprenditori del settore tessile moda, ma anche da altri settori, trovano finalmente riscontro in senso reale di mercato dei consumatori.

Oggi la sostenibilità nel mondo tessile-moda è riconosciuta attraverso nuove forme di circolarità. Se prima è stata un’industria dall’ economia lineare (utilizzo, consumo, rinnovo), adesso si vuole avviare un’industria circolare, seguendo tre direttrici:

Seconda mano: utilizzo dei capi che poi possono rimessi in circolazione tramite il dono o la vendita (aprendo lo scenario del vintage reselling).

Upcycling: capi non destinati al vintage di pregio ma che possono essere rivalorizzati superando il concetto di stagionalità.

Riciclo tessile: Un materiale o capo può essere rielaborato per diventare di nuovo un bene virtuoso in tre modi: il primo è il riciclo della fibra stessa nel tessile come ad esempio cashmere o nylon riciclato.

Altrimenti è possibile il riciclo per settori diversi in quanto il materiale risultante viene compattato per ad esempio l’edilizia, in ultima opzione si stanno studiando formule di riciclo mirate a valorizzare nuovi settori per lo sfruttamento energetico, l ’uso dei coloranti derivati ecc.

Siamo nella prima fase di un percorso in cui il riciclo tessile è diventata un’opportunità di business e di scelta di vita. È un tema di movimento culturale perché di riciclo tessile si parlava già dal 1850 nel pratese.

Ci tengo a far comprendere come tutte le informazioni sulla sostenibilità nel fashion di cui leggiamo oggi sono valide solo se sono il risultato di una filiera produttiva virtuosa in cui il primo contributo sta nella scelta di fornitori competenti in materia. Come consumatori siamo tenuti tutti nel nostro interesse a informarci e imparare i nuovi prodotti sul mercato.

Post Covid sono varie le iniziative di finanza agevolata che con i giusti professionisti possono sostenere la ricerca e la promozione di collezioni nate dallo spirito dell’ecodesign.