Dopo due settimane di lavoro, più due giorni di tempi supplementari, si è conclusa la COP27, il principale evento globale in cui Governi, imprese e rappresentanti della società civile si incontrano per affrontare l’emergenza climatica.

Quest’anno i leader mondiali si sono riuniti a Sharm-el-Sheik tra mille contraddizioni e scelte non centrate: un Paese, l’Egitto, che non spicca certo per il rispetto dei diritti umani, i jet privati, uno dei mezzi più inquinanti, utilizzati come mezzo di trasporto da più di 400 leader, un catering ricco di prodotti ad alto impatto ambientale e lo sponsor che, con la produzione di 110 miliardi di bottiglie di plastica l’anno (circa un quinto della produzione mondiale), risulta essere tra i più grandi inquinatori al mondo.

Anche le presenze destano qualche dubbio: la netta minoranza delle donne, nonostante – dati alla mano – nei Paesi in cui ricoprono ruoli di leadership, le politiche sui cambiamenti climatici siano più rigorose ed efficaci, e un sensibile incremento della presenza dei lobbisti di compagnie legate alle fonti fossili (25% in più della COP di Glasgow).

Anche le assenze hanno avuto il loro peso. Come quella dei leader di Paesi chiave, tra i principali emettitori di CO2, come la Cina, l’India e la Russia, e l’apparizione lampo di Joe Biden che non è bastata.

Una partenza, non con i migliori presupposti, insomma, ma a difesa di questa 27esima edizione del vertice, che riparte dal Patto sul Clima raggiunto lo scorso anno a Glasgow, c’è una prima, importante novità introdotta in agenda: il loss&damage, ovvero il calcolo dei danni causati dalla crisi climatica, la definizione delle responsabilità e dei conseguenti finanziamenti da parte dei Paesi più industrializzati e inquinanti, per risarcire i Paesi poveri e vulnerabili, che hanno minori responsabilità sul cambiamento climatico, ma sono i più colpiti dai suoi effetti.

L’impegno è stato misurato in 100 miliardi di dollari l’anno, almeno fino al 2025, un target in realtà nato nel 2009, che al momento si assesta appena sopra gli 80 miliardi. Chi fa bene è soprattutto l’Europa (Italia inclusa), che paga anche più di quanto competerebbe, male invece, secondo i calcoli fatti da Carbon Brief: Stati Uniti, Canada, Australia, e Regno Unito.

Ruolo chiave quello delle MDBs, le Banche multilaterali di sviluppo (come la Banca Mondiale e l’Asian Development Bank) che, come evidenziato nella bozza di testo finale di questa COP, “dovranno fornire una quota significativa di risorse finanziarie, migliorare il loro potenziale di leva finanziaria dei finanziamenti privati, impiegare la gamma di strumenti dalle sovvenzioni alle garanzie e agli strumenti non di debito e risolvere la limitata propensione al rischio e capitalizzazione ridotta, triplicando i finanziamenti per il clima almeno fino al 2025”.

Una riforma senza precedenti che apre i prestiti verso Paesi meno industrializzati e dà sicurezza al mondo della finanza privata per investire in rinnovabili, agricoltura rigenerativa ed economia circolare.

Mai come oggi il mondo economico è chiamato a generare nuova finanza per il clima e l’Italia cerca di fare la sua parte. Il nuovo Fondo Italiano per il Clima presentato, che sarà gestito da Cassa Depositi e Prestiti, prevede di erogare 840 milioni l’anno dal 2022 al 2026 per finanziare interventi, anche a fondo perduto, a favore di soggetti privati e pubblici, per contribuire al raggiungimento degli obiettivi stabiliti negli accordi internazionali in materia di clima e tutela ambientale.

Solo qualche dubbio a riguardo: la Cina, alla guida dei Paesi emergenti e in via di sviluppo è al primo posto come emettitore di gas serra e di certo ha le spalle finanziarie per contribuire alla creazione del fondo loss&damage. Sarà quindi erogatore o beneficiario di questo fondo? Che posizione prenderanno i Paesi che possiedono e usano i maggiori giacimenti petroliferi, ma che rientrano nella definizione di Paesi in via di sviluppo?

Sarà un comitato istituito ad hoc a decidere.

Altro punto trattato a COP27, ha visto ribadire il limite, stabilito nell’Accordo di Parigi, dell’aumento della temperatura a 1,5 gradi entro il 2030, con la conseguente necessità di ridurre le emissioni di CO2 del 45%.

C’è il piccolo particolare che le parole indicano una direzione, i numeri quella opposta. Le cifre fornite dal Global Carbon Project mostrano una crescita delle emissioni di CO2 nell’anno in corso di circa l’1% rispetto al 2021.

Quel che è chiaro è che, la conclusione della COP27, vede i prossimi mesi chiave per definire i nuovi obiettivi di taglio delle emissioni dei singoli Paesi.

Tra i timidi passi fatti e quelli non fatti nello scenario internazionale, l’Italia figura tra i Paesi più virtuosi dell’Unione, un Paese che alla transizione energetica, alla scelta delle rinnovabili, crede e ha già fatto, in molti casi, di necessità virtù. Complice anche una forte spinta dal basso: la scelta green delle imprese si diffonde con ampiezza e velocità sorprendenti. Inoltre, tra le principali proposte esposte dal nostro Paese, il sistema dello Youth4Climate, per coinvolgere in modo attivo i giovani nei negoziati.

È giunto il momento, in particolare per i Paesi più avanzati, di accelerare sulla via della transizione energetica, indipendentemente dagli esiti di questa o della prossima COP”, dice Edo Ronchi, presidente della Fondazione per lo sviluppo sostenibile, che sottolinea la necessità di far crescere gli attori di questa transizione, Governi, imprese e città, come unico volano per avvicinarci a quegli obiettivi che oggi sembrano ancora lontanissimi.

Diversi gli interventi che fanno eco. Il primo è quello di Simon Stiell, il nuovo Segretario Esecutivo della United Nations Framework Convention on Climate Change (UNFCCC), la Convenzione quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici a cui fanno capo le COP, che ha parlato di “una nuova era”, dove tutti devono iniziare a fare le cose diversamente. Un discorso in cui ha trovato spazio anche il tema del ruolo centrale del genere femminile nell’azione climatica.

“Siamo sull’autostrada verso un inferno climatico, con il piede schiacciato sull’acceleratore” l’ormai celebre frase-allarme di António Guterres, il Segretario Generale Onu, “il nostro pianeta si sta avvicinando rapidamente a punti critici che renderanno il caos climatico irreversibile”, con un chiaro riferimento ai molteplici eventi climatici estremi che si sono verificati. “Abbiamo un bisogno urgente di azioni per il clima e la guerra in Ucraina non deve distogliere l’attenzione da questo problema”. Guterres ha sottolineato anche l’importanza del raggiungimento di quella cifra simbolica dei 100 miliardi di dollari da destinare ogni anno per mitigazione e adattamento dei Paesi più vulnerabili, ma anche di quanto il senso di “pagare i danni”, esista nella misura in cui ci si occupi anche delle azioni volte a ridurli.

Tutte considerazioni severe ma giuste, che trovano fondamenta nella citazione di Seneca: Non esiste vento a favore per il marinaio che non sa dove andare”.