L’Italia è uno dei Paesi più avanzati in materia di economia circolare, tuttavia molte sono ancora le potenzialità per la filiera del cemento e del calcestruzzo.
Si tratta infatti di una grande opportunità per tutte le aziende della rappresentanza industriale dei processi a valle del cemento che desiderano ridurre il proprio impatto ambientale, sfruttando materiali sempre più intelligenti e green.
Ha approfondito l’argomento Antonio Buzzi, Direttore Operativo (COO) della Buzzi Unicem Italia e Vice Presidente e Coordinatore della Commissione Ambiente ed Economia Circolare FEDERBETON, in una interessante intervista di Andrea Dari per il portale Ingenio di che riporto per voi.
Andrea Dari
Quanto incide oggi la CO2 sul prezzo del cemento? Negli altri Paesi in cui siete presenti cosa si sta facendo?
Antonio Buzzi
I conti sono presto fatti. Anche prendendo a riferimento l’ambizioso fattore emissivo di riferimento (benchmark) per il settore del cemento, recentemente definito a livello EU in 0,693 tCO2/tcemento, e tenuto conto delle ultime quotazioni dei diritti di emissione di CO2, in assenza di allocazioni gratuite di diritti di emissione (a cui progressivamente si sta tendendo), ci avviciniamo ad un extra costo di quasi 30 eur/ton di cemento, valore questo che porta a raddoppiare i costi variabili produttivi.
Se in aggiunta consideriamo che questo impatto economico è quadruplicato in tre anni, si può ben comprendere quanto la cosa rischi di diventare insostenibile da qui in avanti, per altro non essendo pensabile ribaltare tali extra costi sul prodotto venduto, come invece accade per esempio per l’energia elettrica. I produttori di cemento dunque subiscono un duplice impatto economico: uno diretto, legato alle proprie emissioni di CO2 ed uno indiretto connesso ai propri consumi energetici.
Ogni Paese ed ogni produttore, è sottoposto alle regolamentazioni locali e ciascuno decide in base alle proprie politiche di gruppo come orientare le proprie scelte. Tuttavia, proprio in virtù di orientamenti associativi virtuosi, riterrei di poter dire che il nostro settore è globalmente orientato a migliorare costantemente il proprio footprint ambientale.
L’uso dei rifiuti solidi urbani nella produzione del Cemento
Andrea Dari
Uno dei temi forti e più controversi – soprattutto dal punto di vista politico nazionale e locale – riguarda l’uso dei rifiuti solidi urbani all’interno del ciclo di produzione del cemento. In molti paesi questa soluzione ha risolto due problemi, la gestione dei rifiuti e il consumo di combustibili fossili. In Italia spesso viene osteggiata (così come la realizzazione di termovalorizzatori). Perché si tratta di una soluzione verde? Perché non comporta problemi di inquinamento come alcuni credono?
Antonio Buzzi
I combustibili derivanti dal processamento di rifiuti possono essere utilizzati nelle cementerie, quale alternativa sostenibile a quelli fossili, nel quadro più generale delle politiche europee per la creazione e promozione della c.d. “economia circolare” e nel rispetto della gerarchia europea dei rifiuti, ponendosi a valle di forme di riutilizzo e riciclaggio più virtuose, ma certamente non con queste in contraddizione, evitando in questo modo forme di smaltimento in discarica o termodistruzione.
Essi derivano dal recupero di quella frazione dei rifiuti che, al termine della raccolta differenziata, non può essere riutilizzata o riciclata.
In particolare, tali materiali, per essere impiegati quali combustibili nelle cementerie e in altri impianti (come le centrali termoelettriche), vengono attentamente selezionati, lavorati e trasformati in coerenza con la normativa vigente. Si tratta di una forma di recupero di materiali, comunque esistenti, il cui destino finale alternativo sarebbe lo smaltimento tramite l’incenerimento, il conferimento in discarica o l’export verso altri Paesi.
Considerato che il conferimento in discarica e l’incenerimento comportano emissioni di CO2 e/o altre sostanze, l’attività di co-combustione consente un immediato beneficio ambientale, nella misura in cui sostituire parte del combustibile fossile attualmente impiegato nei forni con combustibili di recupero, significa sottrarre rifiuti alla discarica e all’incenerimento, evitando le corrispondenti emissioni in atmosfera. Inoltre la frazione di biomassa contenuta nei combustibili di recupero – non presente invece in quelli fossili – è carbon neutral rispetto alle emissioni di CO2. Al contrario, nel caso del conferimento in discarica, si generano significative emissioni di metano dovute alla degradazione della componente organica dei rifiuti, che ha un effetto serra almeno 21 volte maggiore a quello generato dalla CO2.
Inoltre gli effetti di tale combustione e le sostanze che ne derivano sono perfettamente noti e determinati, in quanto costantemente monitorati in continuo (tramite sistemi SME) ed in discontinuo per i microinquinanti non riscontrabili “in diretta”, senza che residui alcuno spazio di incertezza per l’applicazione del principio di precauzione. In tal senso si è anche espresso il TAR con una recente sentenza.
Evoluzione della composizione dei cementi
Andrea Dari
Sempre per quanto riguarda i leganti, vi è una ricerca quanto mai attiva dedicata alle soluzioni tecnologiche che potrebbero consentire la sostituzione del clinker con altri materiali. Già oggi sono in commercio cementi di miscela in cui sono state introdotte materie prime seconde come le ceneri volanti, o le loppe. Ma ci sono studi in cui si prevede una sostituzione anche totale. Cosa ne pensi e ritieni che possa diventare una soluzione per i nuovi calcestruzzi verdi?
Antonio Buzzi
Le aggiunte attive come ceneri e loppe sono prodotti noti da decenni e già ampiamente impiegati nella produzione dei leganti idraulici e nel confezionamento dei calcestruzzi, tuttavia sono materiali “in via di estinzione”, almeno per quanto riguarda le ceneri volanti, o non sufficienti a livello globale per sostituire integralmente il clinker nei cementi. Certamente possono e continueranno a fornire un importante contributo per ridurre la componente clinker, ma non possono ritenersi l’unica soluzione. Sarebbe miope pensarlo.
Esistono oggi alcune soluzioni sul mercato, seppur molto di nicchia, basati prevalentemente su loppe e additivazioni alcaline, ma tali prodotti non rispondono ad alcuna norma europea, specialmente la EN 197-1, e non dispongono – a mia conoscenza – della marcatura CE. Non sono prodotti che possano rimpiazzare i normali cementi Portland ed il loro utilizzo è limitato ad applicazioni non strutturali.
Credo che si debba guardare in altre direzioni se pensiamo a produzioni globali, oggi già superiori a 4 miliardi di ton/anno. Non va inoltre dimenticato che nei calcestruzzi dovranno crescere significativamente le componenti di riciclato al proprio interno, agevolandone il mercato.
Lo stato della produzione del calcestruzzo
Andrea Dari
Nel nostro settore spesso l’attenzione verde viene dedicata solo alla produzione di cemento, anche se sappiamo che le cementerie di oggi sono impianti industriali ad altissima tecnologia, con livelli di gestione delle emissioni che probabilmente nessun altro settore industriale ha raggiunto. Minore attenzione viene, a mio parere, dedicata però alla produzione del componente che più utilizza il cemento, ovvero il calcestruzzo. Vediamo così presenti sul mercato impianti di betonaggio con piazzali cementati, sistemi efficienti di raccolta d’acqua e abbattimento delle polveri, impianti tecnologici dotati di ogni sistema di protezione ambientale (e del rumore, e della sicurezza) e altri impianti in cui forse il componente più sano è la ruggine che pervade ogni struttura metallica. Non ritieni che per un settore così strategico (non esiste costruzione che possa essere realizzata senza usare il calcestruzzo, almeno per le fondazioni) si dovrebbero definire normative tali da consentire la permanenza sul mercato di impianti con un livello qualitativo più uniforme?
Antonio Buzzi
Così come per le cementerie, anche per il calcestruzzo esiste un quadro normativo, seppur ancora migliorabile. Alla necessità del pieno rispetto delle norme, va aggiunto che essere sostenibili significa anche saper stare sul mercato effettuando investimenti orientati all’ambiente, al contenimento delle emissioni, al recupero completo delle acque, al contenimento del rumore, tutto in piena sicurezza per gli operatori di centrale e per l’indotto connesso.
Il quadro fornito dal Rapporto di sostenibilità 2019 di Federbeton mostra buone performance ambientali da parte del settore della produzione di calcestruzzo. Il 66% delle aziende rendicontate nel Rapporto è dotato di sistemi di raccolta e riutilizzo delle acque di processo e di conteggio delle acque riutilizzate. La totalità delle aziende è dotata nei propri impianti di un sistema di raccolta delle acque meteoriche e di sistemi di raccolta e contenimento delle polveri. Infine oltre l’82% delle aziende rendicontate nel Rapporto è dotata di sistemi di mitigazione del rumore in impianto, previsti dalle norme solo laddove necessario.
La certificazione CSC
Andrea Dari
La certificazione CSC potrà essere la soluzione per una reale qualifica degli impianti produttivi? la sua complessità la porterà ad essere una soluzione applicata solo per gli impianti strategici?
Antonio Buzzi
Si ritiene che questo tipo di certificazione possa fornire una svolta rispetto a soluzioni del passato che si sono dimostrate fallimentari. Come tutti i processi ambiziosi in contesti sfidanti, il rigore della certificazione CSC richiede un elevato impegno, che dovrebbe ripagare chi lo adotta degli sforzi compiuti e portare beneficio in particolare all’ambiente, a garanzia di determinati requisiti di sostenibilità richiesti da molte nuove opere innovative, che auspichiamo possano essere progressivamente più numerose. Il CSC è una certificazione di filiera e come tale dovrebbe spingere a rendere più virtuoso tutto il circuito di approvvigionamento e fornitura. Diventa dunque uno strumento per valorizzare quelle imprese che intendono investire per adattarsi all’evoluzione in corso, e stimolo per il miglioramento continuo della filiera.
Riflessioni sulla vita utile delle opere
Andrea Dari
Rimaniamo sul tema del calcestruzzo e dell’economia circolare. Il calcestruzzo armato con acciaio (che sia in barre o fibre non è un problema) è un materiale facilmente riciclabile. Se una struttura è poi solo in calcestruzzo armato la frantumazione a fine ciclo porta a aggregati di riciclo di grandissima qualità e quindi molto facili per essere riutilizzati. Non ritieni quindi che si debba tenere conto in modo maggiore di questo valore quando una struttura arriva a fine ciclo di vita? oggi spesso si prolunga la vita dell’opera operando degli incamiciamenti con materiali che poi, quando si dovrà prima o poi demolire la struttura creeranno grandi problemi di riciclaggio.
Antonio Buzzi
Credo che si debbano considerare sempre tutte le soluzioni possibili. Gli “incamiciamenti” di cui parli sono probabilmente valide soluzioni di manutenzione straordinaria da adottare in talune circostanze, ad esempio in un contesto che non consenta la ricostruzione integrale di un’opera. Non lo ritengo dunque in contraddizione con la successiva eventuale demolizione e riciclaggio. Piuttosto, per agevolare correttamente il recupero di materia a partire da rifiuti di costruzione e demolizione, comprese le demolizioni del calcestruzzo stesso, diventa fondamentale agevolare e abilitare nuove tecnologie per demolizioni selettive che consentano una separazione ispirata alla “raccolta differenziata” che tutti noi facciamo a casa nostra. Altrettanto sarebbe opportuno che già in fase progettuale si pensi al fine vita dell’opera ed in conseguenza di ciò, la si progetti agevolando questo passaggio. Per fare ciò è necessario mettere al tavolo più soggetti della filiera assumendo dunque una visione olistica, anche nel settore delle costruzioni, verso una sempre maggiore circolarità dei vari business, rendendoli sempre più interconnessi. Stimoli e agevolazioni fiscali potranno essere di aiuto ad incentivare e avviare un nuovo approccio.
Andrea Dari
Resto sulla domanda precedente per renderla più complessa. Le infrastrutture in cemento armato post guerra, soprattutto negli anni sessanta e settanta sono spesso firmate da grandi progettisti: Nervi, Cestelli Guidi, Morandi … Sto parlando di ponti, stadi, edifici pubblici. Quando deve prevalere il valore «storico» di un’opera e quando deve prevalere invece la scelta di una sostituzione?
Antonio Buzzi
È una domanda a cui non so rispondere compiutamente, oltre ad essere forse più soggettiva che oggettiva. In generale potrei direi che ogni opera d’arte, se tale si tratta, è calata nel proprio momento storico e culturale di riferimento e come tale ha un valore intrinseco. Tale valore però – secondo il mio modesto parere – non si esprime solamente nella sua affermazione storica nel passato, ma deve essere “memoriale” su cui costruire il futuro, attivando nuove “sinapsi progettuali” e generando pensiero evolutivo, produttivo, ovvero arrivare a chiamare nuova arte, superamento della precedente e stimolo per chi verrà dopo, verso strutture e infrastrutture sempre più efficienti, ambientalmente integrate, socialmente utili. In una parola sempre più a misura d’Uomo.
La deindustrializzazione
Andrea Dari
Un’ultima domanda. Le politiche sulla CO2 richiedono investimenti. Le politiche sul contenimento delle emissioni richiedono investimenti. Le politiche di certificazione richiedono investimenti. La produzione nei Paesi virtuosi è in calo mentre crescono i mercati nei Paesi asiatici e africani. Quanto è importante la dimensione industriale di una company oggi per poter restare sul mercato e raccogliere tutte queste sfide, e quanto è importante il ruolo di sostegno che può esprimere il Paese (di sua provenienza) per restare sul mercato?
Antonio Buzzi
Gli investimenti sono fondamentali per “stare sul mercato”, ma il mercato è fondamentale a fornire le risorse necessario per compiere gli investimenti. Senza flussi di cassa positivi non ci sono investimenti. Può essere un circolo virtuoso o vizioso. Le aziende, indipendentemente dalla propria dimensione, arrivano fino a dove le proprie risorse interne lo consentono, dopodichè orientano le proprie scelte dove le sfide sono sostenibili e laddove il mercato sottostante è “generoso” o almeno vivace. Sta alla Politica comprendere come sostenere lo sviluppo di un Paese e sta alle imprese far comprendere alla politica in che modo e con quali investimenti i vari settori possono contribuire a favorire lo sviluppo dello stesso.